"Troppo anziani e egoisti"
il giudice toglie loro la figlia
il giudice toglie loro la figlia
Sentenza choc del tribunale dei minori del Piemonte. La madre ha 57 anni, il padre 70. La bambina è nata grazie alla fecondazione artificiale al di fuori dai confini italiani. Ora ha un anno e mezzo. Secondo il giudice diventerà orfana in giovane età e prima ancora sarà costretta a curare il papà e la mamma.
Luigi e Gabriella Deambrosis |
Le sentenze dicono che non siete buoni genitori…
“Dicono che non ho l’immaginario paterno - dice al telefono Luigi Deambrosis, un uomo che, raccontano le sentenze, è diventato padre soprattutto per far piacere a sua moglie - ma la verità è che non ci hanno dato il tempo di provare a essere genitori. Viola ce l’hanno portata via che aveva due mesi. Se ce l’avessero lasciata un po’ di più avrebbero capito che potevamo essere un buon padre e una buona madre”.
I vicini di casa vi hanno denunciato perché la bambina era sola in auto. E’ vero?“Sì, certo, l’ho lasciata dormire nel seggiolino per 7 minuti, il tempo di salire a scaldarle il latte. Dopo, saremmo andati insieme a prendere mia moglie. Siamo stati prosciolti (già in istruttoria, ndr) dall’accusa penale, ma a quanto pare non importa a nessuno”.
Vi arrenderete davanti a questa decisione?“No. Non ci arrenderemo, è un dolore troppo grande. Decideremo che cosa fare insieme all’avvocato”.
Da quanto tempo non vedete Viola?“Da più di un anno. Non ci sono parole per dire quanto mia moglie e io stiamo soffrendo. Avevamo una grande speranza nella giustizia, c’erano degli elementi nuovi… ma non sono stati considerati. Andremo avanti”.
Tutte le perizie hanno dichiarato Luigi e Gabriella sani di mente, ma nel 2003 la loro richiesta di adozione era stata rifiutata per ragioni di età e i due avevano quindi deciso di ricorrere a una fecondazione artificiale all’estero. Viaggi, prove, tentativi. E alla fine la nascita di una bella bambina nella maternità migliore d’Italia, al “Sant’Anna” di Torino. Da subito, i due sono guardati con perplessità. Ora l’avvocato Boscagli commenta: “Strano che la Corte abbia voluto ‘difendersi’ a più riprese dall’idea che la decisione fosse dettata in primo luogo dall’età dei genitori. Questa sentenza mette in discussione il modo di essere genitori di tutti gli italiani: chi non ha mai lasciato un bambino dormire in auto per qualche minuto in un luogo sicuro? Chi è in grado di esprimere i suoi sentimenti genitoriali durante gli incontri ‘protetti’ presso i servizi sociali con una bambina di pochi mesi, mentre è osservato come una scimmia in gabbia?”. Domande legittime, e istruttive per chiunque, passati i 50, decida di tentare una fecondazione oltreconfine. Tutto ebbe inizio il 16 settembre 2011. I genitori sono "troppo" anziani scrive Sarah Martinenghi su repubblica perché l´hanno concepita a 57 anni la madre, e 70 anni il padre. E hanno desiderato "troppo" avere un figlio, andando contro le leggi della natura ed evidentemente ricorrendo alla fecondazione al di fuori dei confini italiani.
Sono i due punti cardine della sentenza choc pronunciata dal tribunale per i minori del Piemonte, che ha dichiarato "Viola" (il nome è di fantasia), bimba di un anno e mezzo, adottabile, togliendola per sempre ai suoi genitori che abitano a Mirabello, piccolo paese di mille anime tra le colline del Monferrato.
I giudici hanno infatti ritenuto che la piccola sia «il frutto di una applicazione distorta delle enormi possibilità offerte dal progresso in materia genetica». E la volontà di concepirla «è una scelta che, se spinta oltre certi limiti si fonda sulla volontà di onnipotenza, sul desiderio di soddisfare a tutti i costi i propri bisogni che necessariamente implicano l´accantonamento delle leggi di natura e una certa indifferenza rispetto alla prospettiva del bambino».
In concreto, spiegano i giudici Donata Clerici, Federica Florio, Alberto Astesano e Silvia Truffo, «i genitori non si sono mai seriamente posti domande in merito al fatto che "Viola" si ritroverà orfana in giovane età e prima ancora sarà costretta a curare i genitori anziani, che potrebbero avere patologie più o meno invalidanti, proprio nel momento in cui, giovane adulta, avrà bisogno del sostegno dei suoi genitori». Per questo riportano le parole della consulente tecnica secondo cui «il dato della differenza d´età per i genitori non assume alcuna rilevanza, essendo secondario rispetto all´appagamento del bisogno narcisistico di avere un bambino».
Contro questa decisione l´avvocato Fabio Deorsola (che assiste i genitori insieme al collega Giulio Calosso) presenterà ricorso: «Si tratta di una sentenza fondata sul pregiudizio che considera l´adozione una misura alternativa al desiderio di genitorialità». Nella sentenza i giudici hanno esaminato a fondo i caratteri dei genitori riscontrando difficoltà pratiche nel gestire la piccola: "È stata allattata artificialmente ed è rimasta al nido per 5 giorni dalla nascita perché la madre non si sentiva in grado di tenerla in camera con sé». Contro i genitori è in corso anche un procedimento penale per abbandono di minore, perché i genitori l´avevano lasciata per alcuni minuti da sola in macchina (pur non avendola messa, secondo i giudici, in situazione di pericolo).
La piccola era nata il 26 maggio 2010all´ospedale Sant´Anna di Torino, e la sua venuta al mondo aveva fatto scalpore proprio per l´età avanzata dei genitori. Il padre, in pensione, che aveva in passato ricoperto cariche istituzionali, e la madre che lavora nella biblioteca di una città piemontese, si erano sposati nel 1990, e avevano provato invano a adottare un bambino. La richiesta però era stata negata, nel 2003, per limiti d´età. Sette anni dopo hanno concretizzato il loro desiderio di diventare genitori. Ma solo per poco. Alla nascita di Viola, infatti, il tribunale ha subito aperto un procedimento sottoponendo i genitori-nonni a grande attenzione. Ed è bastata la segnalazione dei vicini di casa che avevano visto la bimba lasciata in macchina da sola piangere alle dieci di sera per far scattare, alcuni giorni dopo l´intervento di carabinieri e magistratura: Viola era stata presa e data in affido, a un mese di vita. «Stava dormendo nell´ovetto, non volevo svegliarla, e l´ho lasciata sola per sette minuti» ha spiegato invano il papà.
La sua è la versione della maggioranza del paese, la parte che ha raccolto le firme in solidarietà dei genitori anziani a cui hanno tolto una bimba. Ma c'è quell'altra parte, quella che affiora dal passato. Giovanni Sisto passeggia nella via a fianco: "Vede quella fontana? Quell'uomo (Luigi) va lì a lavare i piatti, perché dicono che a casa non hanno l'acqua. Certo sono strani, quando una persona non esce mai con gli altri c'è sempre qualcosa che non va". Un'ora dopo Luigi scuote le spalle: "È vero che da un anno non usciamo, Con tutto il dolore che abbiamo dentro. Non avevamo voglia di spiegare sempre la nostra storia".
Una diceria locale dice che gli abitanti di Mirabello sono un po' matti e quelli della vicina Occimiano sono molto tirchi. E che a Mirabello si litiga molto. Don Paolo Cassano è il parroco di tutti e due i paesi: "A parte tutte le storie che si raccontano, questa sentenza mi pare molto dura Ho parlato spesso con questa coppia dopo che hanno portato via la bambina, vorrebbero battezzarla e non sono riusciti a farlo". Ma allora Gianna Nannini che di anni ne ha oltre 50 ed è sola?, si infervora il parroco che scrive sul giornale locale della Diocesi: "Io non sono d'accordo con la loro scelta di ricorrere alla fecondazione eterologa, ma non penso proprio che si possa sostenere che non sono in grado di occuparsi della bambina, che sono vecchi per farlo".
Il giovane sindaco Luca Gianola esce dal Municipio e non vorrebbe dir niente: "Non dite che questo è un paese di pregiudizi. Mirabello è un paese vivace, dove ci sono tante associazioni, dove abbiamo il wi-fi ovunque, stasera abbiamo un festival musicale importante del Monferrato. Come in ogni paese ci sono odi e amori, non tutti si piacciono, non tutti vanno d'accordo".
In piazza generazioni a confronto. Giulia ha 15 anni e studia al liceo di Casale. Non le piace l'idea di una fecondazione dove il padre non è il padre, ma neppure la decisione di un giudice che toglie una bambina ad una mamma: "Questa è una storia di cattiveria ed è triste dire che non sono in grado di occuparsi della bimba. Ma cosa ne possono sapere?". Sulla panchina davanti al municipio quattro donne confabulano. Non vogliono dire come si chiamano per paura dei giudizi del giorno dopo, ma il loro verdetto è senza appello: " Tutta colpa del medico. Non si fanno figli a quell'età".
Bambini in casa-famiglia
business da un miliardo all'anno!
Si chiamano Marinella, Mirko, Daria, Luciano, Valentina. Altri hanno nomi di battesimo esotici o che evocano genealogie di altri paesi europei (molto Est). Non si può nemmeno dire che siano figli di un dio minore: sono figli di nessuno. Anzi: sono, diventano, figli delle istituzioni. Dei servizi sociali. Dei tribunali. Di una sentenza. Entrano in una casa-famiglia da neonati e, sembra paradossale, a volte ci restano fino a quando diventano maggiorenni. E per tutto quel tempo capita che si chiedano perché non li affidano a una famiglia, visto che un nuovo padre e una nuova madre si sono fatti avanti e non vedono l'ora di riempirli di affetto, di amore. Può persino accadere che, una volta raggiunti i 18 anni, e uscito dalla struttura in cui sei cresciuto, ti tocchi ritornare nella famiglia di origine. Come se il tempo non fosse mai passato, o, peggio, inutilmente.
Già nel 2011 Paolo Berizzi su repubblica scriveva. In Italia ci sono oltre 20 mila giovani - tra neonati, bambini e ragazzi - ospitati da strutture di accoglienza. Sono istituti riservati a chi è stato allontanato dai genitori naturali o non li ha proprio mai conosciuti. Solo uno su cinque di questi ospiti viene assegnato (con adozione o affido) dai tribunali alle famiglie che ne fanno richiesta (più di 10mila). È una media bassissima, tra le più scarse d'Europa. Il motore che alimenta questa "stranezza" italiana è una nebulosa dove le cause nobili lasciano il posto al business e agli interessi di bottega. Ogni ospite che risiede in una casa-famiglia costa dai 70 ai 120 euro al giorno. La retta agli istituti (sia religiosi sia laici) viene pagata dai Comuni. Soldi pubblici, dunque. Erogati fino a quando il bambino resta "in casa". Un giro d'affari che si aggira intorno a 1 miliardo di euro l'anno. Tanto ricevono le oltre 1800 case famiglia italiane per mantenere le loro "quote" di minori. Ma un bambino assegnato a una coppia è una retta in meno che entra nelle casse della comunità. E così, purtroppo, si cerca di tenercelo il più a lungo possibile. La media è 3 anni. Un'eternità. Soprattutto se questo tempo sottratto alla vita familiare si colloca nei primi anni di vita. Quelli della formazione, i più importanti per il bambino.
Anche da qui si capisce perché migliaia di coppie restano in biblica attesa che le pratiche per l'adozione o l'affido si sblocchino. Poi ovviamente ci sono anche altri fattori, la maggior parte dei quali legati alle lungaggini e alle complicazioni burocratico-giudiziarie.
Da dove nasce questo cortocircuito? Chi lucra sulla pelle di migliaia di bambini e adolescenti che provengono da situazioni difficili, molto spesso drammatiche?
"Il mondo degli affidi e delle case famiglia sta attraversando un momento difficilissimo - dice Lino D'Andrea, presidente di Arciragazzi, un'associazione nazionale che si occupa di diritti dell'infanzia - . Ci sono situazioni che vanno ben oltre la soglia della decenza e della dignità umana. Mi riferisco, in particolare, ai casi più estremi. Che purtroppo sono diffusissimi. E cioè quei ragazzi maggiorenni che usciti dagli istituti non sanno dove andare. Una cosa del genere non dovrebbe essere tollerata. Perché è l'esatta negazione della funzione delle case famiglia. La rappresentazione esatta di come l'obiettivo di una struttura di accoglienza - che dovrebbe essere un luogo di transito, una specie di "parcheggio" temporaneo in attesa dell'affido - può naufragare".
COME PACCHI POSTALI
Il destino più comune per un bambino che cresce in una casa famiglia è quello di diventare un pacco. Sballottato di qua e di là, da una comunità all'altra. A volte i centri se li contendono come merce preziosa. Perché con un minore "in casa" ogni giorno piovono dal cielo rette da 70 euro a 120. Una "diaria" di cui si fa un utilizzo non esattamente "pieno". Operatori laici o suore riescono a contenere le spese facendole stare abbondantemente dentro la retta concessa dai Comuni. Quello che resta diventa liquidità a disposizione della struttura (molte case famiglia vengono mantenute con fondi messi a disposizione dal ministero della famiglia e anche grazie a donazioni private).
Quante sono le case famiglia in Italia? Chi controlla il loro operato, anche amministrativo? Le stime più recenti parlano di oltre 1800 strutture distribuite da Nord a Sud. Con alcune regioni - Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Sicilia - che raggiungono numeri più consistenti (tra le 250 e le 300). Nonostante le casse (e i relativi finanziamenti) di molti Comuni siano al verde, le case-famiglia sono in continuo aumento. Il problema è che non esiste un monitoraggio. Si conosce pochissimo di questi posti e di quello che accade all'interno. Numeri, casi, situazioni, problemi, nella maggior parte dei casi vengono portati all'esterno solo grazie alla sensibilità di qualche operatore e/o assistente sociale. Perché una banca dati c'è ma è insufficiente e non esiste un vero censimento. Dopo che nel 2008 i parlamentari Antonio Mazzocchi e Alessandra Mussolini (presidente della commissione bicamerale per l'Infanzia) hanno lanciato un appello al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, e al presidente del consiglio Berlusconi, il sottosegretario alla giustizia Casellati ha varato un database "all'italiana - incalza Mussolini - perché riguarda solo le adozioni e non contempla anche i casi, numerosissimi, di affido. La realtà è che aspettiamo ancora un censimento vero e proprio e un adeguamento così come prevede la legge 149/2001" (progressiva chiusura degli orfanotrofi, inserimento dei bambini nelle famiglie attraverso lo strumento dell'affido, per arrivare gradualmente a un'adozione, o all'inserimento dei minori nelle case famiglia).
L'ASSENZA DI CONTROLLI
E i controlli sui luoghi dove i bambini vengono parcheggiati? Chi vigila sugli istituti che ospitano i senza-famiglia? "Esistono centinaia di enti e associazioni no profit che hanno il compito di rilevare la statistica esatta del numero dei bambini in attesa e degli adottandi-affidandi. Ma nessuno è in grado di fornire numeri esatti". Risultato: ancora oggi non esiste un monitoraggio attendibile. "Cerchiamo di raccogliere più dati possibili - dice Francesca Coppini, dell'Istituto degli innocenti di Firenze (tre strutture residenziali per piccoli da 0 a 6 anni, mamme e gestanti) - ma è tutt'altro che facile in mancanza di una vera organizzazione da parte delle istituzioni".
Buio pesto anche sul fronte delle verifiche. "Lo Stato paga le comunità ma nessuno chiede alla comunità una giustifica delle spese - aggiunge Lino D'Andrea - . Sarebbe utile che ogni casa-famiglia rendesse pubblica le modalità con cui vengono utilizzati i fondi: quanto per il cibo, quanto per il vestiario, quanto per gli psicologi o le varie attività. Il punto è che, in assenza di informazioni, i bambini stanno in questi posti e nessuno gli fa fare niente. Non crescono, non vivono la vita, non incontrano amici, non fanno sport né gite". Il numero di bambini senza famiglia è oscillato negli ultimi anni tra i 15mila e i 20mila. Oggi sembra essersi assestato intorno alla sua punta massima. Ma il controllo dei "flussi" è anche un problema legato alla sicurezza (adescamento, pedofilia).
C'è anche un problema di competenze. Sull'infanzia ci sono troppe deleghe sparpagliate tra vari ministeri (Pari opportunità, Lavoro, Giustizia, Gioventù) e anche senza portafogli. Con il risultato che, non essendoci un unico soggetto che si occupi di infanzia abbandonata, si finisce per trovarsi di fronte una nebulosa in mezzo alla quale si capisce poco e niente.
Gli orfanotrofi non sono ancora scomparsi del tutto. Alcuni sono stati convertiti in case-famiglia: anche due o tre comunità nello stesso edificio. Una per piano. Poi le altre storture. Nel libero mercato delle comunità per minori abbandonati, c'è chi, per essere competitivo, abbatte la diaria giornaliera fino a ridurla a 30-40 euro. Teoricamente più la abbassi e più bambini riesci a far confluire nella tua struttura attraverso l'input dei servizi sociali che, a cascata, agiscono su indicazione del tribunale.
Altra nota dolente, i tribunali. Solo nel tribunale di Milano, ogni anno si accumulano 5mila fascicoli relativi a famiglie disagiate con a carico almeno un minore. "I magistrati non riescono a seguire la pratiche perché i ragazzi raramente sono seguiti dal territorio di competenza - ragiona un operatore dell'infanzia - . La maggior parte sono parcheggiati in un posto senza che nessuno lo segua davvero".
ALCUNI CASI
Le storie che vengono a galla compongono un campionario da fare accapponare la pelle. Ma se si prova a restare lucidi, si capisce come ogni vita congelata o sfilacciata, ogni odissea che abbia per protagonista un bambino "di nessuno" si deposita sullo stesso fondo di mala amministrazione. "Le case-famiglia sono una risorsa importante per il reinserimento del minore - spiega l'avvocato Andrea Falcetta, di Roma - ma la permanenza di un bambino va gestita con cura e deve rispondere a un unico criterio: trovargli il prima possibile una collocazione familiare".
Paolo ha compiuto 18 anni dentro un istituto dell'Aquila. La responsabile, una suora, quando Paolo era adolescente, sostiene e favorisce per un anno gli incontri con una coppia con due figli, di cui uno adottivo. A legame consolidato, la coppia si offre per l'affidamento di Paolo, la suora cambia idea e il tribunale nega l'affidamento. Ora, con la maggiore età, è la stessa famiglia ad occuparsi del ragazzo.
Brescia. Monica, 7 anni, subisce molestie dal padre; la mamma si rivolge al tribunale e ai servizi sociali: i quali decidono di mettere la bambina in un istituto punendo anche la madre.
Una bambina di Lecce viene strappata ai genitori accusati di non nutrirla abbastanza perché vegetariani. la famiglia resta in una comunità per quasi un anno. la madre è autorizzata a stare con la bambina nell'istituto di suore, per essere "rieducata" dagli assistenti sociali. La signora testimonia che nei lunghi e numerosi colloqui con gli educatori non si è mai parlato delle possibili problematiche della bambina ma le domande che le venivano poste riguardavano solo i suoi rapporti sessuali con il marito. Oggi, riottenuta la figlia dal tribunale, genitori e bambina sono emigrati felicemente in Svizzera.
Roma. Il tribunale affida Daria, 4 anni, ai servizi sociali e questi la indirizzano in un "centro di aiuto" contro la volontà dei genitori (gli esami escludono ogni tipo di violenza sulla bambina). Tuttavia sono gli stessi genitori a chiedere all'Asl un'insegnante di sostegno visto il lieve ritardo psichico di cui soffre la bambina. Ricusato il consulente del tribunale e nominato uno nuovo, emerge infine che i problemi di Daria erano dovuti ad una sofferenza da parto (mancanza di ossigeno per qualche istante) e che dunque avevano natura medica e non psicologica: dopo 8 mesi di casa famiglia la bambina viene rimandata a casa dal tribunale.
Bologna. M. e C. sono sposati, abitano in periferia, redditi non fissi, lui operaio in nero. Hanno un bimbo di 8 anni. Vengono dichiarati decaduti della potestà genitoriale a causa di un procedimento nato dalla denuncia di due maestre: "Il bambino sa troppe cose riguardo alla sessualità". Era accaduto che il bambino si era alzato, era andato in salotto dove il padre stava guardando un film pornografico. L'uomo, secondo gli assistenti sociali, aveva manifestato un'assenza totale di autocritica rispetto all'episodio e si era sollevato da ogni responsabilità; mentre davanti al giudice aveva ammesso "aveva solo 2-3 anni, pensavo non capisse. Credo ora di avere sbagliato". Ricoverato in una comunità, il bambino è stato poi dichiarato adottabile (è in attesa di una famiglia da quasi due anni) nonostante la zia materna (sposata e con figli) avesse presentato invano istanze per ottenerne l'affidamento e scongiurarne l'adozione.
Strappati agli affetti e spremuti nella crescita. Così va la vita dei figli di nessuno.
Già nel 2011 Paolo Berizzi su repubblica scriveva. In Italia ci sono oltre 20 mila giovani - tra neonati, bambini e ragazzi - ospitati da strutture di accoglienza. Sono istituti riservati a chi è stato allontanato dai genitori naturali o non li ha proprio mai conosciuti. Solo uno su cinque di questi ospiti viene assegnato (con adozione o affido) dai tribunali alle famiglie che ne fanno richiesta (più di 10mila). È una media bassissima, tra le più scarse d'Europa. Il motore che alimenta questa "stranezza" italiana è una nebulosa dove le cause nobili lasciano il posto al business e agli interessi di bottega. Ogni ospite che risiede in una casa-famiglia costa dai 70 ai 120 euro al giorno. La retta agli istituti (sia religiosi sia laici) viene pagata dai Comuni. Soldi pubblici, dunque. Erogati fino a quando il bambino resta "in casa". Un giro d'affari che si aggira intorno a 1 miliardo di euro l'anno. Tanto ricevono le oltre 1800 case famiglia italiane per mantenere le loro "quote" di minori. Ma un bambino assegnato a una coppia è una retta in meno che entra nelle casse della comunità. E così, purtroppo, si cerca di tenercelo il più a lungo possibile. La media è 3 anni. Un'eternità. Soprattutto se questo tempo sottratto alla vita familiare si colloca nei primi anni di vita. Quelli della formazione, i più importanti per il bambino.
Anche da qui si capisce perché migliaia di coppie restano in biblica attesa che le pratiche per l'adozione o l'affido si sblocchino. Poi ovviamente ci sono anche altri fattori, la maggior parte dei quali legati alle lungaggini e alle complicazioni burocratico-giudiziarie.
Da dove nasce questo cortocircuito? Chi lucra sulla pelle di migliaia di bambini e adolescenti che provengono da situazioni difficili, molto spesso drammatiche?
"Il mondo degli affidi e delle case famiglia sta attraversando un momento difficilissimo - dice Lino D'Andrea, presidente di Arciragazzi, un'associazione nazionale che si occupa di diritti dell'infanzia - . Ci sono situazioni che vanno ben oltre la soglia della decenza e della dignità umana. Mi riferisco, in particolare, ai casi più estremi. Che purtroppo sono diffusissimi. E cioè quei ragazzi maggiorenni che usciti dagli istituti non sanno dove andare. Una cosa del genere non dovrebbe essere tollerata. Perché è l'esatta negazione della funzione delle case famiglia. La rappresentazione esatta di come l'obiettivo di una struttura di accoglienza - che dovrebbe essere un luogo di transito, una specie di "parcheggio" temporaneo in attesa dell'affido - può naufragare".
COME PACCHI POSTALI
Il destino più comune per un bambino che cresce in una casa famiglia è quello di diventare un pacco. Sballottato di qua e di là, da una comunità all'altra. A volte i centri se li contendono come merce preziosa. Perché con un minore "in casa" ogni giorno piovono dal cielo rette da 70 euro a 120. Una "diaria" di cui si fa un utilizzo non esattamente "pieno". Operatori laici o suore riescono a contenere le spese facendole stare abbondantemente dentro la retta concessa dai Comuni. Quello che resta diventa liquidità a disposizione della struttura (molte case famiglia vengono mantenute con fondi messi a disposizione dal ministero della famiglia e anche grazie a donazioni private).
Quante sono le case famiglia in Italia? Chi controlla il loro operato, anche amministrativo? Le stime più recenti parlano di oltre 1800 strutture distribuite da Nord a Sud. Con alcune regioni - Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Sicilia - che raggiungono numeri più consistenti (tra le 250 e le 300). Nonostante le casse (e i relativi finanziamenti) di molti Comuni siano al verde, le case-famiglia sono in continuo aumento. Il problema è che non esiste un monitoraggio. Si conosce pochissimo di questi posti e di quello che accade all'interno. Numeri, casi, situazioni, problemi, nella maggior parte dei casi vengono portati all'esterno solo grazie alla sensibilità di qualche operatore e/o assistente sociale. Perché una banca dati c'è ma è insufficiente e non esiste un vero censimento. Dopo che nel 2008 i parlamentari Antonio Mazzocchi e Alessandra Mussolini (presidente della commissione bicamerale per l'Infanzia) hanno lanciato un appello al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, e al presidente del consiglio Berlusconi, il sottosegretario alla giustizia Casellati ha varato un database "all'italiana - incalza Mussolini - perché riguarda solo le adozioni e non contempla anche i casi, numerosissimi, di affido. La realtà è che aspettiamo ancora un censimento vero e proprio e un adeguamento così come prevede la legge 149/2001" (progressiva chiusura degli orfanotrofi, inserimento dei bambini nelle famiglie attraverso lo strumento dell'affido, per arrivare gradualmente a un'adozione, o all'inserimento dei minori nelle case famiglia).
L'ASSENZA DI CONTROLLI
E i controlli sui luoghi dove i bambini vengono parcheggiati? Chi vigila sugli istituti che ospitano i senza-famiglia? "Esistono centinaia di enti e associazioni no profit che hanno il compito di rilevare la statistica esatta del numero dei bambini in attesa e degli adottandi-affidandi. Ma nessuno è in grado di fornire numeri esatti". Risultato: ancora oggi non esiste un monitoraggio attendibile. "Cerchiamo di raccogliere più dati possibili - dice Francesca Coppini, dell'Istituto degli innocenti di Firenze (tre strutture residenziali per piccoli da 0 a 6 anni, mamme e gestanti) - ma è tutt'altro che facile in mancanza di una vera organizzazione da parte delle istituzioni".
Buio pesto anche sul fronte delle verifiche. "Lo Stato paga le comunità ma nessuno chiede alla comunità una giustifica delle spese - aggiunge Lino D'Andrea - . Sarebbe utile che ogni casa-famiglia rendesse pubblica le modalità con cui vengono utilizzati i fondi: quanto per il cibo, quanto per il vestiario, quanto per gli psicologi o le varie attività. Il punto è che, in assenza di informazioni, i bambini stanno in questi posti e nessuno gli fa fare niente. Non crescono, non vivono la vita, non incontrano amici, non fanno sport né gite". Il numero di bambini senza famiglia è oscillato negli ultimi anni tra i 15mila e i 20mila. Oggi sembra essersi assestato intorno alla sua punta massima. Ma il controllo dei "flussi" è anche un problema legato alla sicurezza (adescamento, pedofilia).
C'è anche un problema di competenze. Sull'infanzia ci sono troppe deleghe sparpagliate tra vari ministeri (Pari opportunità, Lavoro, Giustizia, Gioventù) e anche senza portafogli. Con il risultato che, non essendoci un unico soggetto che si occupi di infanzia abbandonata, si finisce per trovarsi di fronte una nebulosa in mezzo alla quale si capisce poco e niente.
Gli orfanotrofi non sono ancora scomparsi del tutto. Alcuni sono stati convertiti in case-famiglia: anche due o tre comunità nello stesso edificio. Una per piano. Poi le altre storture. Nel libero mercato delle comunità per minori abbandonati, c'è chi, per essere competitivo, abbatte la diaria giornaliera fino a ridurla a 30-40 euro. Teoricamente più la abbassi e più bambini riesci a far confluire nella tua struttura attraverso l'input dei servizi sociali che, a cascata, agiscono su indicazione del tribunale.
Altra nota dolente, i tribunali. Solo nel tribunale di Milano, ogni anno si accumulano 5mila fascicoli relativi a famiglie disagiate con a carico almeno un minore. "I magistrati non riescono a seguire la pratiche perché i ragazzi raramente sono seguiti dal territorio di competenza - ragiona un operatore dell'infanzia - . La maggior parte sono parcheggiati in un posto senza che nessuno lo segua davvero".
ALCUNI CASI
Le storie che vengono a galla compongono un campionario da fare accapponare la pelle. Ma se si prova a restare lucidi, si capisce come ogni vita congelata o sfilacciata, ogni odissea che abbia per protagonista un bambino "di nessuno" si deposita sullo stesso fondo di mala amministrazione. "Le case-famiglia sono una risorsa importante per il reinserimento del minore - spiega l'avvocato Andrea Falcetta, di Roma - ma la permanenza di un bambino va gestita con cura e deve rispondere a un unico criterio: trovargli il prima possibile una collocazione familiare".
Paolo ha compiuto 18 anni dentro un istituto dell'Aquila. La responsabile, una suora, quando Paolo era adolescente, sostiene e favorisce per un anno gli incontri con una coppia con due figli, di cui uno adottivo. A legame consolidato, la coppia si offre per l'affidamento di Paolo, la suora cambia idea e il tribunale nega l'affidamento. Ora, con la maggiore età, è la stessa famiglia ad occuparsi del ragazzo.
Brescia. Monica, 7 anni, subisce molestie dal padre; la mamma si rivolge al tribunale e ai servizi sociali: i quali decidono di mettere la bambina in un istituto punendo anche la madre.
Una bambina di Lecce viene strappata ai genitori accusati di non nutrirla abbastanza perché vegetariani. la famiglia resta in una comunità per quasi un anno. la madre è autorizzata a stare con la bambina nell'istituto di suore, per essere "rieducata" dagli assistenti sociali. La signora testimonia che nei lunghi e numerosi colloqui con gli educatori non si è mai parlato delle possibili problematiche della bambina ma le domande che le venivano poste riguardavano solo i suoi rapporti sessuali con il marito. Oggi, riottenuta la figlia dal tribunale, genitori e bambina sono emigrati felicemente in Svizzera.
Roma. Il tribunale affida Daria, 4 anni, ai servizi sociali e questi la indirizzano in un "centro di aiuto" contro la volontà dei genitori (gli esami escludono ogni tipo di violenza sulla bambina). Tuttavia sono gli stessi genitori a chiedere all'Asl un'insegnante di sostegno visto il lieve ritardo psichico di cui soffre la bambina. Ricusato il consulente del tribunale e nominato uno nuovo, emerge infine che i problemi di Daria erano dovuti ad una sofferenza da parto (mancanza di ossigeno per qualche istante) e che dunque avevano natura medica e non psicologica: dopo 8 mesi di casa famiglia la bambina viene rimandata a casa dal tribunale.
Bologna. M. e C. sono sposati, abitano in periferia, redditi non fissi, lui operaio in nero. Hanno un bimbo di 8 anni. Vengono dichiarati decaduti della potestà genitoriale a causa di un procedimento nato dalla denuncia di due maestre: "Il bambino sa troppe cose riguardo alla sessualità". Era accaduto che il bambino si era alzato, era andato in salotto dove il padre stava guardando un film pornografico. L'uomo, secondo gli assistenti sociali, aveva manifestato un'assenza totale di autocritica rispetto all'episodio e si era sollevato da ogni responsabilità; mentre davanti al giudice aveva ammesso "aveva solo 2-3 anni, pensavo non capisse. Credo ora di avere sbagliato". Ricoverato in una comunità, il bambino è stato poi dichiarato adottabile (è in attesa di una famiglia da quasi due anni) nonostante la zia materna (sposata e con figli) avesse presentato invano istanze per ottenerne l'affidamento e scongiurarne l'adozione.
Strappati agli affetti e spremuti nella crescita. Così va la vita dei figli di nessuno.
Parlano i genitori di "Viola"
Il business dei minori in affido